Page 20 - RIVISTA NOIQUI MAGGIO 2024

francesco d’angio’
LORENZO CALOGERO
IL POETA CHE HA DIMINUITO TUTTI
Sarà che è proprio vero che bisogna morire per essere considerati... forse.
Che i poeti scrivano spesso di amore morte ed eternità, è cosa risaputa, ma capita anche che
non si riesca ad afferrarli nel corso della loro tormentata vita terrena, quando cercano come
di comunicarci il dono della poesia mentre se ne stanno il più possibile lontano dagli altri e dal
mondo, un tentativo perseguito con accanimento, l’accanimento del verso che scava il profondo
solco che ci vuole dentro, in quelle affollate solitudini che nessuno dovrebbe permettersi e che
in pochi si caricano su spalle di roccia sabbiosa.
Ci si accalca, dopo, quando la vita è svanita e qualche nome importante riconosce quel talento
così ben “mascherato” dallo sfortunato poeta, o anche artista, se vogliamo completare il quadro.
Ed è stato così anche per il solitario, infelice, contorto, quasi folle Lorenzo Calogero, nato a
Melicuccà, un piccolo paese dell’entroterra reggino, il 28 maggio 1910, il luogo dell’inizio e
quello della fine, quando il 25 marzo 1961, ufficialmente, ma presumibilmente qualche giorno
prima, chiese di non essere sotterrato vivo (contenuto del biglietto trovato accanto al suo corpo).
La grande beffa vuole che con la salma ancora calda, qualcuno affermi che costui ci ha diminuito
tutti, frase pronunciata addirittura da Giuseppe Ungaretti, con il seguito emotivo di altri illustri
nomi dell’epoca come Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Mario Luzi, e via discorrendo. Ma
si sa che l’onda emotiva quando passa non lascia nulla e l’oblio si riprende presto la scena con
l’intenzione di tenerla a lungo per sé, e Lorenzo Calogero, considerato tra i più importanti del
Novecento anche da Carmelo Bene, ritorna nel dimenticatoio, in quella solitudine che così tanta
compagnia gli aveva fatto in vita. Tra i più importanti del Novecento... tanto importante da
faticare non poco per vedersi pubblicate le sue poesie, fino al punto da pagare, e nemo propheta in
patria sosterranno in molti.
Laureatosi in medicina dopo una breve parentesi in ingegneria, comincia a soffrire presto
di patofobia, convincendosi, senza reale motivo, di essere affetto da gravi malattie. Ma la sua
sofferenza maggiore è verso la vita, un’angoscia del vivere che gli farà trovare giovamento,
un giovamento relativo, solo nella poesia. Comincia a comporre i primi versi, raccolti in Poco
suono, stampato a pagamento nel 1936 dall’editore Centauro, e non saranno gli unici pubblicati
a pagamento. Nel 1955 pubblica altre due raccolte con Maia, casa editrice senese, dopo essere
stato rifiutato da Einaudi. Si tratta di componimenti scritti nel dopoguerra, oltre ad altri inediti
giovanili.I rapporti con il mondo culturale dell’epoca sono del tutto assenti, incomprensibile ai
più quel poetuccio venuto dal Sud più profondo, incapace di instaurare qualsiasi tipo di relazione
con gli intellettuali e i letterati suoi contemporanei, sì prevenuti nei confronti di tutto ciò che
veniva culturalmente prodotto al di sotto di Roma (male ancora attuale), ma anche respinti dal
disagio e dal disamore che Lorenzo Calogero provava innanzitutto verso sé stesso.
Unica eccezione a questo isolamento fu la vicinanza di Leonardo Sinisgalli, altro poeta meridionale
di origini lucane, nato a Montemurro nel 1908, che firma la prefazione di Come in dittici, una
raccolta di centosettantasei poesie scritte tra il ‘54 ed il ‘56, pubblicate sempre da Maia. Sinisgalli
resterà l’unico punto di riferimento di un mondo esterno sempre più distante. Alla scomparsa
della madre, a cui era molto legato, tenta il suicidio, gesto che convince la famiglia a ricoverarlo
in una casa di cura per malattie nervose. Qui scriverà quei versi che poi finiranno in I quaderni
di Villa Nuccia, pubblicati dopo la sua morte e definiti dal poeta Canti della morte. Il ricovero,
però, acuisce il suo malessere e il senso di abbandono da parte di tutti, a cominciare dalla sua
famiglia. Non gli resta che chiedere aiuto ancora una volta a Sinisgalli che a marzo del 1957 gli
presenta sulla Fiera letteraria alcune poesie. Dello stesso anno è anche l’unico riconoscimento
ricevuto in vita da Lorenzo Calogero, il Premio Villa San Giovanni, un amarissimo ed effimero
riconoscimento considerate le sue precarie condizioni di salute. Sinisgalli lo trascina quasi di
forza a ritirare quel premio, che lo vede “assente” tra gli assenti, incapace di proferire una sola
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parola durante la cerimonia di premiazione.
Calogero definisce quella premiazione con una colorita espressione dialettale.
Di lì a qualche anno, in assoluta solitudine, nella sua casa di Melicuccà, la morte se lo chiama col suo
peso leggero.
In quel rifugio chiamato poesia, vorremmo essere trovati senza essere svenduti, ma qualcuno
passa e distrattamente ci definisce come uno dei tanti, e ci respinge nelle dimenticanze giuste di
chi un giorno verrà a scoprirci con la buona dose di ipocrisia che tutti (o quasi) assolve. Lorenzo
Calogero da quel rifugio ha lanciato la sua voce a salve, per la salvezza non sua, ma di chi non
ha granché da dire e partecipa attivamente al gioco dell’onnipresenza, decidendo i tempi per
l’entrata in scena di chi non recita, di colui che è incapace di mascherare quella incompiutezza
che ben definisce la realtà di ognuno. La sfiducia in quella stessa realtà non è un gioco o un
vezzo intellettuale, ma la constatazione di un bene che potrà farci visita solo dopo la nostra
morte, e a volte, neanche accade.
Forse il silenzio libero avanza
e quanto è sottomessa la luna
a questi aloni irrequieti
come le foglie secche
e i nuovi campi liberi odorano ancora;
ma tu stai di là dalle giunture del monte
e sono come corpi morti.
(Da I Quaderni di Villa Nuccia)
Si, l’elemosina della quiete lascia il piattino vuoto, e lo sguardo sperso ai margini della strada,
riflette il nostro stesso volto triste che avremmo voluto perdere al primo appuntamento con la
vita. La quiete, la pace, quella pace e quella calma che Lorenzo Calogero trovava soltanto nella
poesia, unica conoscenza che amava fare.
Nelle immagini che lo ritraggono lo si vede avvolto in un enorme cappotto con la borsa da
medico condotto, piena di fogli di poesie, piuttosto che di strumenti della sua professione,
professione esercitata scrivendo versi. Scriverà di lui anche Eugenio Montale, in un famoso
articolo sul Corriere della Sera, evidenziando come fosse “un’impresa ardua accostarsi alla
sua poesia fatta di parole spogliate del loro significato semantico e ridotte a semplice segno...
incrociando varie tendenze e rifiutandole tutte allo stesso tempo per non impoverirsi, interamente
posseduto dal demone dell’analogia, della similitudine (…). Calogero scompone in emistichi il
nostro verso tradizionale e lo ricompone in nuovi modi (…). Egli non scriveva la sua poesia,
la viveva in un modo del tutto fisico e per lui l’attesa era qualcosa di inimmaginabile. Se avesse
potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi, sarebbe ancora vivo”. Abbiamo detto
che Carmelo Bene definì Calogero come il più grande poeta italiano del Novecento, forse per
la drammaturgia implicitamente contenuta nei suoi versi, complessi, mai lineari e così creativi,
innovativi. Nella prefazione alla raccolta Come in dittici, Leonardo Sinisgalli definisce la poesia di
Lorenzo Calogero come un “groviglio insensato” che in un lampo, in un soffio, ci restituisce il
senso labile della vita, in tracce di parole che si fanno memoria, attraverso l’incanto di una voce.
È una poesia fatta di suono, onirica, che va oltre ogni classificazione, nella sua “città fantastica”
(definizione del poeta stesso), tutto è possibile ed è negato, il verso procede per paranomasie
e allitterazioni. Un visionario Calogero, fuori da un tempo preciso e dai suoi cliché. Non
aveva una sua corte, ma un’unica “disperata e mostruosa dedizione” per la poesia, come scrive
Sinisgalli, una dedizione per una poesia definita ermetica perché tutto ciò che non si comprendeva
all’istante, veniva definito “ermetico”, una poesia che doveva essere eliminata perché “dannosa”
per quell’altra poesia, quella bucolicamente alta e prontissima nel mettersi a disposizione della
facile comprensione. Un po’ quel che accade ancora oggi... Al contrario, poco aveva in comune
con i poeti cosiddetti ermetici, e alquanto stretta gli stava anche la figura del poeta “maledetto”,
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