Page 102 - RIVISTA OTTOBRE 2024
P. 102

fRANcEscO D'ANGIÒ





                                                                   Galateo in Bosco

                                         Ovvero la familiarità con l’incomprensibile bellezza






               La disperazione ha l’ordine del senso incomprensibile per chi da vivo soggiorna nel regno dei

               morti, da dove portano in dote ciò che ai non disperati occorre per stare nelle regole. E per loro
               resta la poesia che li salva dalla comprensione. Ma quale poesia? E da quale comprensione ci si

               deve salvare? E che attinenza ha la disperazione con tutto ciò?

               Ponendoci di fronte ad un testo, nell’atto della lettura, o confrontandoci con l’arte in generale,
               la prima cosa che ci auguriamo e che sia di facile comprensione? Dobbiamo forse sentirci

               come quei registi che dopo aver girato la prima scena, esclamano “buona la prima”? E l’intimo

               segreto della poesia, o della letteratura, dov’è, se tutto viene svelato al primo passaggio, se
               appare subito superfluo un ritornarci su per cogliere altre sfumature, svelare codici all’apparenza

               incomprensibili, cogliere in divenire emozioni su emozioni. Badate bene, così da sgomberare

               subito il campo da fraintendimenti strumentali, che non si vuol fare apologia di oscurità fine a
               se stessa, o di difendere elucubrazioni pretestuose affinché si possa dividere un certo tipo di

               letteratura tra “alta” e “bassa”, perché non è proprio questo il punto. Prendiamo ad esempio

               un’opera come “Galateo in Bosco” del poeta Andrea Zanzotto: l’ammettere ad una prima
               lettura, una certa difficoltà di comprensione, la fa retrocedere in qualche posto oscuro? O al

               contrario non dovremmo avvertire un piacere e una bellezza da scovare con una operazione

               attenta e capillare, superando proprio quella schematicità iniziale nella quale ci pare di essere

               destinati come pedine di un mosaico codificato, come se fossimo dei commi di un regolamento
               che vuol definire il tutto a prescindere, perché per stare all’interno della nostra organizzazione

               sociale, bisogna rispettarle le norme del “Galateo”, e finanche in guerra ciò può accadere. Può

               accadere di ritrovarsi a rispettare “Il Galateo della Morte”. Ora, vorrei fare un passo indietro

               e riportare una riflessione colta in rete, riflessione espressa come una sorta di difesa d’ufficio
               della poesia “semplice”, con annessa difficoltà in termini di definizione precisa, su quel che vuol

               significare “semplice”. Capovolgendo gli estremi di questo disquisire, e partendo da ciò che

               semplice non appare, come definiremmo dunque la poesia di Zanzotto del Galateo in Bosco?
               La compiutezza di un percorso di lettura si può definire tale quando possiamo affermare di aver

               compreso ogni passaggio in un tempo determinato e relativamente breve? E se al contrario

               pensassimo ad una poesia in divenire, ad una poesia che ci precede e che cerca essa stessa una
               strada tutta da tracciare, una provvisorietà della poesia simile alla provvisorietà della nostra

               esistenza, con un verso, una frase che da sola è già poesia pronta a consegnarsi ad un’altra, in

               una sorta di staffetta semantica per tentare di raggiungere vette inesplorate. E del resto, non
               abbiamo ogni giorno un appuntamento con l’ignoto, con un qualcosa che non sappiamo, anche

               in quel procedere che sembra già tutto scritto, in quel non accadere che ci tiene in serbo il finale.

               Il compito di colmare quelle mancanze che crediamo di ravvisare in un testo non “semplice”,
               non è forse il nostro più importante? Dov’è il vero punto di rottura con ciò che ci circonda,

               nel continuo fare consolatorio a conservazione della specie? Cosa c’è di più inconciliabile di un

               “bosco” e di un “galateo”, ed è la fuga verso la strada meno tortuosa quella che sempre ci deve

               contraddistinguere per semplicità di rassegnazione finale?
               Eppure nell’opera di Zanzotto ciò che parte in separazione, si compatta e si storicizza nei luoghi

               del poeta, raggomitolando le distanze del lettore dal punto di sedimentazione massima della

               sofferenza, il divenire sacrale dell’ossario dei caduti della grande guerra. Il Bosco si riprende le

               ossa, di noi che coniughiamo forme (Il Galateo) per un vivere civile che deraglia nella primitiva
               veste che mai del tutto ci abbandona. In uno stesso luogo si scrive e si smonta la struttura

               in ogni singolo primordiale elemento per aprirsi ad una relazione “senza luogo e per ogni

               luogo”, dove il confine ha il suo senso nel superamento dello stesso, posizionandoci su ogni
               soglia per il suo superamento, servendoci della parola che si dà a noi e che noi restituiamo con




                102  periodico mensile del gruppo NOIQUI
   97   98   99   100   101   102   103   104   105   106   107