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e il futuro fosse una promessa che non arriva. Rimane un eterno oggi, fragile e
senza rete, che chiede solo di essere sentito.
Lo stile è coerente con la materia: versi brevi, taglienti, densi di immagini. Pun-
teggiatura ridotta, ritmo sincopato. Ogni poesia si legge come un respiro tratte-
nuto, un singulto, un gesto di resistenza. È una voce che non chiede permesso,
ma neppure urla. Parla con una chiarezza spaventosa, con un pudore che non si
veste di reticenza ma di nudità consapevole.
Luppino fa della parola un atto corporeo: le sue metafore non sono decorazioni,
ma esperienze sensibili. I suoi testi sono abitati da oggetti e corpi: gabbiani,
sigarette spente, formaggi, baci, pelle, mani, piatti, lenzuola. È come se la scrit-
tura stessa nascesse dalla carne, come se ogni parola fosse passata prima dal
sangue.
La sua è una poesia che ricorda, per intensità e verticalità, alcune pagine di Alda
Merini, ma anche per quella capacità di raccontare la malattia dell’anima come
qualcosa di universale, e non come eccezione. Una poesia che non isola, ma con-
nette: “Eppure esisti, stupido sordo testardo e vigile, / indimenticabile, a scrivere
versi dentro di me.”
Ci sono versi che restano, che non ti lasciano, che ti interrogano. E questo è il
segno di una scrittura riuscita, compiuta nel suo scopo più alto: spalancare il
mondo interiore per offrirlo come specchio all’altro.
Rubedo è un libro da leggere in apnea, lasciando che ogni parola affondi nella
carne e ne riemerga una forma più limpida di noi. Non consola, ma accompa-
gna. Non cura, ma rivela. Non rassicura, ma testimonia. Ed è proprio questo
che ci salva: non la fine del dolore, ma la sua verità espressa.
Ecco cos’è, per me, la poesia di Giulia Luppino: una forma di alchimia etica e
affettiva. Un’offerta. Un rosso che brucia, ma che – nel bruciare – illumina.
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