Page 95 - RIVISTA NOIQUI MARZO 2023
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incolmabile tra il poeta e gli altri uomini. Tra il poeta sacerdote di verità che svelano inganni e di Don Undari sotto i nostri occhi trafitti da verità e bellezza, da necessità impellente di ascolto
gli altri uomini che torturano l’innocenza perché l’inganno va perpetrato e non contestato. Pena e rito sacro d’essere leggeri, puri, eterei come pulviscolo, come scie di comete, molecole di infi-
il collasso del sistema. La silloge di Undari è sovversiva e radicale proprio per questo. Perché nel nito. Cielo e terra. Silenzio e canto. Sospesi e avvinghiati a ciò che resta. La parola è l’ultimo
momento stesso in cui il poeta vuole svelare l’inganno, secoli di oppressione tramandata, glielo approdo.
vietano e proibiscono. Come accedere al mondo interiore del poeta, custode di verità amman-
tate di inganni? Restando sospesi. E’ l’unica possibilità per giungere a lui e attraverso i suoi ver- Bia Cusumano
si, al suo codice d’anima. Il suo codice si svela in sogno. Ciò che non può essere compiuto può
essere cantato. Ecco la meraviglia dei poeti. Possono vivere tutte le vite che desiderano, perché
la parola è il regno del possibile che abbraccia e accoglie l’impossibile, coniuga gli opposti, risar-
cisce dai tradimenti patiti e dagli inganni vili. “All’imbrunire le vestali nel terebinto alimentano
la fiamma. Da fuoco a fuoco. Da silenzio a silenzio. Entrano le amanti al fluire dei corpi incan-
descenti.” Quanta bellezza potente e disarmante in questi versi, quanto il non detto e il sogno
si compiono nel linguaggio di corpi anonimi e universali. Anonimi; eppure, nella visione del
poeta corpi incandescenti di passione primordiale e arcaica, quanto le vestali di un tempio,
quanto un fuoco sacro. Ecco l’eros che abbraccia il logos. Il miracolo sospeso si compie in una
terra che appartiene alla dimensione dei sensi e della parola. Di una parola che è corpo e di sen-
si sacri quanto il fuoco delle sacerdotesse. “Non posso dormire, corri libera come un’anguilla
dentro il mio corpo.” E se il poeta invoca la libertà che solo la parola può restituire all’uomo, vi
è un sonno inquieto perché i corpi defraudati della loro carne, disumanizzati, rivendicano il loro
diritto ad abitare i sensi. Un conflitto tra carne e spirito che non è mai scissione manichea nel
poeta ma tentativo estremo e necessario di essere un conflitto sanato, ricucito, riparato attraver-
so la parola poetica, l’unica in grado di sovvertire secoli di menzogne e dire il vero, attraverso
versi di potenza struggente. Quante teorie di grettezza, quanti fallimenti sulle spalle di ogni
uomo di questa vita banale se non vissuta a pieno. “La scure impietosa recide silenzi, disarciona
bastioni di arrogante sicumera.” Solo l’amore pare intravedersi come estrema ratio di salvezza,
perché l’amore svela incaute meraviglie. La poesia che offre il titolo alla raccolta recita versi pre-
ziosi: “La vita occupa spazio dove c’è posto. Qui non c’è posto. Tu hai un piede e uno sguardo
altrove. Abiti il giorno, quando la luce travalica le tenebre e ti apre una porta su altri mondi.”
Eccole dunque le parole guida, il filo rosso di una silloge che da lettori abbiamo attraversato in
pura sospensione: altrove, porte, altri mondi. La vita, dunque, è una traversata e questo viaggio
“non conosce soste”. Il poeta accede ad un altrove in cui si aprono porte su mondi altri. Lì, in
quella purissima, indefinita sospensione, l’incantesimo si spezza e si compie allo stesso tempo.
Lì “congiunto all’imbrunire, nella penombra, congiunto al fogliame, intravediamo un volto,
quello umano e terreno dell’uomo e quello etereo e indefinito del poeta. Assistiamo ad una fu-
sione tra l’uomo di carne e il poeta eterno che appartiene all’altrove di altri mondi e in quel
volto cogliamo un invito intimo all’incontro con l’altro, chiunque esso sia: “Vediamoci nella la-
guna, dove gli steli sono parabole e i petali emisferi di luce.” La luce dilaga, avvolge, trasmuta,
trasfigura. E’ la luce della bellezza dell’incontro con l’universo altrui. E’ la possibilità disvelata
come corolla, di potere dire: sono qui. “Lascia che nello slancio ancora immobile del corpo
possa dirti: ecco me.” Abbiamo attraversato le poesie di Don Undari, con la consapevolezza che
abbiamo sposato la bellezza come unico credo. Mi riecheggiano gli ultimi versi della sua raccol-
ta, testamento che il poeta affida a ciascuno di noi: “Continua i passi del tuo viaggio lontano dal
perbenismo, dall’ipocrisia, dalla borghesia, da un vivere senza meta. (…) Bruciano in questo falò
le maschere dell’integrità.” Con un omaggio ad uno dei più grandi intellettuali del nostro nove-
cento italiano, Pier Paolo Pasolini e con l’ultima poesia della silloge Linciaggio punitivo, si chiu-
de il nostro fluire dentro orbite di profondissima bellezza: “Escono dalle labbra le ultime paro-
le, si disperdono nell’oscurità.” Così In pura sospensione apre e non chiude il suo mistero, con
quelle ultime parole che mai sapremo quali siano state, disperse nell’oscurità, ora complice di un
linciaggio punitivo, di un massacro crudele e ingiustificato, come ogni crimine, come ogni so-
praffazione dell’altro. La poesia è e resta mistero insondabile eppure sigillo di verità. Terra
dell’altrove e bellezza che dilaga e vince il silenzio. La Poesia coniuga logos ed eros, ragioni e
pulsioni. Abbraccia, avvolge, seduce, cattura, conduce, invoca. Tutto si compie in questa silloge
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