Page 24 - RIVISTA NOIQUI MARZO 2023

fRAnCEsCO D’AngIO’
L'OTTIMISTA NELL'ANGOLO
...E LE ACQUE NON SI APRIRONO
Ad una precisa domanda fattagli da uno studente, su quale fosse
il primo segno di civiltà ravvisabile in una cultura, l'antropologa
statunitense Margaret Mead rispose un po' di anni fa, che il primo
segno di civiltà riscontrabile in una cultura antica, era stato un “fe-
more rotto” e poi guarito. La risposta a sorpresa della Mead, vo-
leva sottolineare quanto fosse fondamentale portare aiuto a qual-
cuno in difficoltà, perché quel femore rotto stava ad indicare il comportamento di qualcuno
che si era preso cura di qualcun altro, dedicandogli del tempo fino a quando l'osso non fosse
guarito. Ed aggiunse che nel regno animale nessuno sopravvive a lungo alla rottura di un arto,
nell'attesa che lo stesso guarisca, e si diventa presto preda per altri predatori. Per tanto con-
cluse affermando che la civiltà inizia nel momento in cui ci predisponiamo ad aiutare chi è in
difficoltà, in quel preciso istante, in quel preciso luogo.
E noi comuni mortali, noi contemporanei, che risposta dovremmo dare se visitatori giunti da
un pianeta lontano ci chiedessero delle nostre manifestazioni di civiltà? Mentre la Terra fa il
suo giro su se stessa ed intorno al sole, in questa porzione d'universo, e mondi virtuali ci vi-
vono accanto al punto tale che pare afferrarli allungando con semplicità una mano, mentre la
tecnologia ci prospetta e ci fornisce soluzioni sempre più avveniristiche per la risoluzione di
ogni problema, compresi quelli inesistenti, cosa possiamo dire del grado di civiltà raggiunto
da codesta umanità, che nonostante tutti i mezzi a disposizione non è ancora riuscita a far
camminare sull'acqua coloro che per fastidiosa miseria si spostano da barbare terre, desiderosi
di agguantare anche loro un poco di quella “felicità civile”. Eppure, si tratta di esseri apparte-
nenti ad una stessa specie, ad una stessa razza...
Sarà perché questi esseri umani con il brutto vizio di spostarsi sciamando in condizioni pre-
carie, sono così ingenui da non aver ancora compreso che se ti ammassi su dei pezzi di legno
galleggianti in un mare tempestoso, le probabilità di galleggiare così a lungo, nell'attesa che
quel segno di civiltà si manifesti, sono scarse, sarà per questo che la cosa che abbiamo impa-
rato a fare meglio, è il cordoglio istituzionale a strage avvenuta?
Certo, la colpa non è del buon padre di famiglia, non è di chi afferra mani che si aggrappano
ad un brandello di vita, la colpa non ha da essere di nessuno, e ciò che deve contare alla fine
di ogni breve indignazione, è la difesa del proprio fortino.
Difendere il proprio fortino, stupidamente ignari che tali fenomeni migratori tenderanno
sempre più ad aumentare alla disperata ricerca di condizioni di vita minime ed essenziali.
Ma coloro che sanno tutto, tengono a tranquillizzarci, perché pare che altre “apocalissi” siano
già avvenute, eppure stiamo ancora qua.
Stiamo ancora qua, anche noi italiani, popolo di emigranti per eccellenza, che più o meno un
secolo fa ce ne stavamo ammucchiati nell'attesa che ci controllassero il cuoio capelluto e la
provenienza misera ed infima, là nei pressi della Statua della Libertà, nell'attesa che l'America
ci accogliesse nel suo grande grembo per nutrirci di nuova vita. E sì che la grande America
l'aveva già “brevettata” qualche secolo prima l'accoglienza, basta guardare nell'archivio pol-
veroso della memoria alla voce “schiavitù”, ma questa sarebbe un'altra triste storia. E quanto
ci “è costata in lacrime” quest'America, parafrasando una famosa canzone, ma si poteva fare
perché c'era posto per tutti, perché c'era lavoro per tutti; era grande “Lamerica”.
Oggi no, oggi non si può, non ce n'è neanche per noi indigeni, e dunque come possiamo ac-
cogliere (?) questa orda di disperati così diversa da noi brava gente che fummo, non si può, no.
Ma poi, che significa “accogliere”? Ce ne sono già abbastanza, si sono già presi tutti i lavori
più umili? Pezzi interi di territorio sono stati trasformati in luoghi dediti al malaffare, grazie
alla loro “meritevole” opera. E beh certo, noi italiani in America abbiamo soltanto portato le
“tradizioni di famiglia”, e ci debbono pure ringraziare perché con quelle “tradizioni”, si è dato
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lavoro a tanti, e pure il cinema ne ha ampiamente beneficiato.
L'Italia è una piccola penisola, amministrata da uomini e donne che hanno già tanti problemi da
risolvere, e non possono proprio stare dietro a questi incoscienti che rischiano la vita invece di
starsene a casa loro, a risolverseli da soli i propri problemi, nell'attesa che magari qualche bene-
fattore gli riversi addosso altri quintali di rifiuti tossici, così da rendere ancora più fertile il loro
deserto, o che magari si aprano finalmente le acque e allora sì, che si potrebbe pensare ad una
passeggiatina dalle parti del “primo mondo”. Certo, sempre nell'attesa, si può continuare a pro-
cedere via terra, perché casomai non ce ne fossimo accorti, è via terra che si sposta la maggior
parte di questi turisti della dannazione. E casomai ci fosse sfuggito qualche altro particolare, i
fenomeni migratori non sono occasionali o soggetti alla moda del momento, ma connaturati al
nostro stesso essere, come forma di necessità primaria al pari del respirare, bere, e nutrirsi. Da
quando l'uomo è uscito dalla caverna, tende “naturalmente” a spostarsi alla ricerca di condizioni
di vita sufficienti o migliori, sia per se stesso che per il proprio primario nucleo familiare.
Per tanto cari uomini e donne che con tanta dedizione e competenza ci amministrate, tra un
problema e l'altro risolto (?), abbiate la prontezza di riflessi di comprendere che nessuno slogan
terrà in un vostro recinto ideale tali esseri umani nati a latitudini che a certuni di voi, poca sim-
patia suscitano per colore dell'incarnato, tradizioni religiose, e capacità atletiche.
Le migrazioni sono addirittura bibliche, e se questo particolare vi fosse sfuggito durante le
vostre attente letture e manifestazioni di fede pseudo Cristiane (magari un ripasso alla parabo-
la del buon samaritano non guasterebbe, tra una messa ed un baciamano), ciò non vi servirà
come giustificazione e né vi salverà dall'ipocrisia che purtroppo per voi si nota bene durante le
cerimonie ufficiali di commemorazione. A meno che il vostro unico obiettivo non sia quello di
resistere quel che vi basta, fino al vostro passare la mano a chi dopo di voi, con buona probabi-
lità, continuerà a procrastinare l'approccio onesto al problema (e non certo l'utopica risoluzione
dello stesso) fino all'arrivo di un nuovo Mosè.
E a quanto pare sta cominciando a scarseggiare anche l'acqua, un po' per tutti, e forse ci toc-
cherà fare un pensierino a quella del mare, e a quel punto pure per un novello Mosè ci sarebbe
ben poco da fare.
Ma noi italiani si sa, ce la prendiamo comoda, perché mentre a due passi dai nostri confini nazio-
nali, già da tempo si sono organizzati (certo non con poche difficoltà) nella convivenza divenuta
generazionale, noi amiamo farci prendere dal panico, affetti da crisi perenni di amnesia che ci
fanno smarrire del tutto la nostra posizione geografica, come se fossimo “collocati” all'estremo
polo e non nel cuore del Mediterraneo. Eppure, quanti ne abbiamo visti di popoli “accomo-
darsi” nella nostra bella italica penisola, e sarà che noi per primi ci sentiamo più regionali che
italiani, avendo ancora poca stima gli uni degli altri, tra siciliani, calabresi, pugliesi, napoletani,
romani, toscani, lombardi, piemontesi, e via dicendo. In fondo l'Italia unita ha appena cento-
sessanta due anni (17 marzo 1861, un piccolo promemoria non guasta). Chissà, tra non molto
potrebbero tornare di moda i cartelli, “non si affitta ai meridionali” ...Sarà colpa del calcio con
buona probabilità, (ed io da napoletano ve lo posso dire con competenza) se le nostre manife-
stazioni di civiltà tardano a maturare, perché è proprio in uno stadio che ci mostriamo per ciò
che siamo (con le dovute eccezioni), ed è là che manifestiamo per l'appunto, il nostro pensiero
più sincero, elaborato sulla base delle caratteristiche etniche di ognuno.
Mi direte che non si può gettare tutto in “caciara”, certo, e non lo facciamo, aspettiamo che il
tempo volga al bello, e che le acque siano meno agitate, e che la primavera giunga con i suoi
alberi in fiore, e che altre guerre destino la nostra attenzione, altre crisi, calamità, e le cavallette,
e che poi l'estate, l'autunno, l'inverno, e che la terra continui a fare i suoi giri in questa porzione
d'universo.
Aspettiamo gridando che non c'è più tempo, gridando “al lupo al lupo”, prima o poi questo
lupo così sordo si presenterà, ma temo che di pecorelle umane nell'ovile, ne troverà ben poche.
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