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RIVISTA NOIQUI FEBBRAIO 2025     https://www.youtube.com/@noiqui/featured

               te precari, di odori di farmaci o di sanitari che in maniera meccanica sembrano
               ripetere ogni giorno il copione di una normalità sgangherata. Il tempo è scandi-
               to dai pasti e dalle medicine che accompagnano i pasti. Per il resto vi è il vuoto,
               il nulla, il silenzio, il sonno, un torpore assente in cui volere cadere. Ma vi è il
               glicine fiorito che si riversa sopra una panchina in cortile. Un cortile che è luogo
               di incontro tra malati di mente, tra i presunti pazzi che tanto fanno paura per-
               ché mettono a disagio i presunti sani. Mi sono sempre chiesta perché non provia-
               mo lo stesso imbarazzo e disagio se incontriamo un altro essere umano con una
               stampella o un braccio ingessato e invece incontriamo una persona che sappia-
               mo soffra di depressione, attacchi di panico o sia bipolare o schizofrenico. La
               risposta credo di averla trovata nei mei lunghi anni di analisi quando dovevo
               imparare a gestire il dolore cronico causato dalla mia patologia invisibile ma
               reale. Fu proprio la mia dottoressa a farmi riflettere fornendomi una chiave di
               lettura che poi fu spunto di grande introspezione e studio per me. La malattia
               mentale ci mette in connessione immediata con le nostre parti malate. È un ri-
               chiamo inappellabile e inderogabile alle nostre ombre, ai nostri demoni interiori,
               ai nostri punti oscuri, alle nostre crepe. Ci strattona e ci ricorda che non siamo
               solo belli, forti, sicuri, saldi nel nostro microcosmo illusorio di onnipotenza. La
               malattia mentale è uno specchio che squarcia il costato della nostra presunta e
               tronfia normalità. Ci denuda, ci sbatte in faccia che anche noi possiamo cadere
               e farci male. Anche noi soffriamo, piangiamo, desideriamo fuggire, crollare, a
               volte perfino farla finita. La malattia mentale è pericolosa perché sovverte la
               prospettiva ingannevole che tutto vada bene nelle nostre vite, che abbiamo tut-
               to sotto controllo, che noi non abbiamo bisogno di nessuno e soprattutto possia-
               mo fare a meno di aiuto. Invece è esattamente il contrario. Siamo fragili, esposti
               al dolore, al fallimento, alla caduta, alla perdita di equilibrio e di controllo.
               Pulsioni feroci e potenti si annidano dentro noi e costa una fatica immensa riu-
               scire ad accettarlo. Insomma, i sani non esistono. Ma sul concetto di presunta e
               necessaria sanità mentale si regge e regola il sistema sociale e il consesso civile
               per cui al sistema imperante va sacrificato, tenuto occulto, segregato, messo a
               tacere chi ha il coraggio di scoperchiare il vaso e di urlare: “Sto male! Sto male!
               E il mio dolore non va in deroga!”. No, il dolore non va in deroga e richiede
               ascolto, asilo, accoglienza, aiuto. La salute mentale tocca e scardina un altro
               punto fondamentale su cui si regge il sistema vigente che ci vuole performanti,
               di successo, produttivi e sempre sul pezzo, senza stonature o sbavature. Il dolore
               richiede aiuto e la capacità di farsene carico. Non ne siamo disposti. Abbiamo
               troppo poco tempo e il dolore richiede tempo e fatica. Siamo tutti immersi in
               una corsa frenetica e non possiamo permetterci il lusso di farci carico del fardel-
               lo pesante della vita altrui, di accoglierne lacrime, sconfitte e traumi. La dimen-
               sione del dolore altrui richiede la capacità di spogliarci dei nostri problemi, delle
               nostre ferite, del nostro stare male tenuto occulto dietro una bella maschera di
               sorrisi  e  trucco,  per  dare  spazio  al  dolore  insondabile  e  sfuggente  dell’altro.
               Nell’ingranaggio  di  una  società  che  non  ha  voluto  coltivare  la  sensibilità  di
               ascoltare e accogliere è una dispersione di tempo e di energie che nessuno può
               permettersi. Dove non esiste la dimensione dell’ascolto si insinua il lager, il ghet-
               to, una zona di confine e di demarcazione netta. Chi soffre da una parte, chi sta
               bene o finge a denti stretti di starci, dall’altra parte. Ecco la necessità di imbot-
               tire i malati di mente di farmaci all’ennesima potenza. Perché i primi che devo-
               no essere storditi, per non sentire l’atrocità del dolore, sono proprio loro, poi
               tutti gli altri a cascata. Perché ciò che non si sente o vede, facilmente si può
               credere non esista e ciò che non esiste non fa paura, non scardina e non sovverte,

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