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RIVISTA NOIQUI FEBBRAIO 2025 https://www.youtube.com/@noiqui/featured
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ABIANA BIA CUSUMANO
iN oGNUNo di Noi vive UN GliCiNe Fiorito:
la parola è FarmaCo
Leggo il libro di Barbara Giangravè “In Clinica Psi-
chiatrica c’è il Glicine Fiorito” edizioni Fides a grandi
boccate di ossigeno o come direbbe lei di nicotina e mi
scivola dentro e si rapprende in tanti grumi di dolore
amaro come deve essere il gusto del tabacco nella la
bocca (non sono una fumatrice). Eppure, quel sapore
deve essere rassicurante e necessario se chi fuma ha così
tanta difficoltà a smettere. Mi chiedo se anche il dolore
sia paradossalmente necessario per scrivere pagine così
intense e forti. In alcuni casi, leggendo, le parole mi sono giunte come pugni
ben assestati in pancia, altre volte come dolcissime nenie che mi hanno ricon-
dotto alla mia infanzia e poi ai mei studi universitari. È quasi inevitabile per
me approdare ad Alda Merini e al suo “Diario di una Diversa”.
Anche allora, erano tempi universitari per me, la lettura delle pagine di Alda
mi provocò sensazioni contrastanti. Una dolcezza struggente si mescolò ad un
dolore che camminava sottopelle e si propagava a grandi e non viste onde in
vena. Parlare di dolore psichico è una scelta di nudità assoluta. Una scelta
coraggiosa, lucida, consapevole. È rompere un muro alto e spesso costruito di
aberranti pregiudizi, colpe, accuse tacite o esplicite. Mi rividi in quel romanzo
di Alda, mi rivedo nel romanzo di Barbara. Perché la storia dei pregiudizi e
delle colpe mi è familiare, consuona e tocca corde di mia personale crescita e
formazione umana e culturale. Certo, io non ho vissuto l’esperienza della cli-
nica psichiatrica come nel caso di Barbara Giangravè o ancora peggio l’espe-
rienza dei manicomi ante-legge Basaglia del 1978 come accadde ad Alda Me-
rini. Ma ho dovuto pagare anche io, per altre vicissitudini di salute, il prezzo
marcio del giudizio e della colpa in cui precipiti se la tua salute traballa, se hai
una patologia subdola che ti ingoia eppur non si vede e non si tocca come si
può fare con un braccio rotto o una gamba spezzata. Come se poi avesse più
dignità il dolore che si vede rispetto a quello invisibile o silente. Sempre dolo-
re è, sia che si tratti di cancro dell’anima di cui parla la Giangravè, sia che si
parli di “esaurimento nervoso” di cui fu tacciata la Merini, sia che si tratti di
fibromialgia nel mio specifico caso. Qualcosa di rotto c’è sempre. Non fuori,
nell’aspetto esteriore che appare nonostante tutto curato. Barbara in “cella
psichiatrica”, come la definisce lei, continua a depilarsi, continua a spinzetta-
re le sue sopracciglia, continua a lavarsi e vestirsi, riesce a scrivere al pc. La
stessa cosa accade ad Alda Merini, continua nella degenza in manicomio, a
concepire versi, ad incontrare anime disperse e abbandonate come lei, conti-
nua perfino ad amare. Nonostante gli orrori del manicomio, la vita si insinua
sempre. E sembra dircelo proprio Barbara. Perché quel “glicine fiorito” è il
simbolo di una bellezza che esiste e resiste in un luogo fatto di flebo, di coper-
te vecchie e sature di acari, di lenzuola poco profumate, di bagni igienicamen-
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