Page 20 - RIVISTA LUGLIO 2024
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le fontane sono intasate e i colombi cercano l’acqua. Il luogo, un altro, sempre lo stesso, mentre

               ad un tiro di sasso si allunga questo corroso infinito. Ci diamo condoglianze di vita.

               Prova imbarazzo Alfonso quando sente pronunciare la parola poeta, e debbo dire che lo provo
               anch’io quando la sento pronunciare troppo spesso. Una parola bulimica quella dei tempi nostri,

               liquidi, sospesi, una parola che vuole solo mostrarsi e che ha reciso il vitale cordone che la lega

               al silenzio.

               Scrivere è una cura, ma se non abbiamo la malattia, è una cura che non guarisce nulla.
               La sillaba è un soffio e il vento nella valle diviene più forte, ci sono temporali che si fanno

               dimenticare in fretta, e piogge leggere che persistono sulla fronte di chi accoglie le parole che

               non hanno lingua, e che il linguaggio trasforma.
               Se siamo malati nutriamo la scrittura senza mai allontanarci da essa, come fanno le gatte quando

               partoriscono, mangiano la placenta per nutrirsi, perché non possono allontanarsi dai cuccioli

               che devono proteggere. Questo dobbiamo, protezione e non esposizione.



               I pomeriggi d’estate dove il Cristo di Carlo Levi si è arreso, sono immortali nell’attesa di un

               tramonto da bestia macellata, come scriveva Vittorio Bodini.
               In uno di questo pomeriggi mi arriva un pensiero di Alfonso dalla Prima lettera ai Corinzi di San

               Paolo: “la croce è pervasiva come la peste ma per ogni croce c’è una via d’uscita e non perché

               Dio sia generoso ma perché questa è la legge”. San Paolo, l’apostolo che è dovuto diventare

               cieco per vedere la luce, colui che è alle spalle della croce con il baratro rassicurante e la pelle
               aggrinzita degli imperi. Il pensiero va verso il buio, verso il rifiuto della vita quando il grido ha

               riposto l’ultimo fiato, e lo strappo in gola è la fine di ogni stupore. C’è chi resta corrotto da una

               debolezza miracolosa, mentre togliersi ciò che non ci appartiene è un miracolo al contrario, il
               negare che la fine è già nel ventre materno usurpando la voce unica della morte.

               Le porte girevoli del sedimento incolore di una parete d’ospedale sono il ricordo selettivo di

               quella stessa vita che non si è voluta negare, e capita in certi ospedali d’incontrare un barbiere

               che assomiglia ad un famoso attore degli anni Sessanta del secolo scorso, il venerdì uno dopo
               l’altro, con la disciplina del reparto più friabile. Il buon Burt Lancaster era un maestro della

               rasatura, sotto il labbro inferiore si doveva gonfiare l’incavo con la lingua. Anche il mio barbiere

               qualche volta me lo ha detto, ma dubito abbia mai conosciuto il buon Burt.
               Credo anche che non abbia mai letto Celan o Kafka, ma per essere un buon barbiere non è

               necessario leggerli.

               Alfonso mi cita spesso Celan, Amelia Rosselli, e come Miller non si ferma davanti ai contagi,
               alle infezione. Ma la malattia della mente non infetta nessuno, e chi ce l’ha se la tiene stretta

               come un dono, perché ti fa penetrare il muro e comprendere l’oltre. Poi, quando torni, sei più

               vicino a quel bambino che ha ancora tanta strada da fare.



               All’interno del recinto di paure c’è ancora della strada da fare.

               Si torna alla madre, la madre di Pasolini, la nostra. Una protezione assoluta che ci ha lasciati

               deturpati, il nido è ancora intatto ma intorno c’è il vuoto. In quel vuoto c’è un corpo spesso
               assente e recluso, rassegnato alla ricerca dell’impossibile che è sostanza del vuoto, cerchiamo

               Dio l’inconoscibile ed anche di noi stessi sappiamo poco. Forse, come ho già detto, sappiamo

               più dell’inconoscibile.
               Hai ragione caro Alfonso, solo San Giovanni della Croce ha potuto farlo, perché noi ci ammaliamo

               pur rinunciando a tutte le cose. E ci resta la scrittura, prosciugata del suo miracolo e alla portata

               di tutti, svilita, accoltellata al cuore e dissanguata, un fiume di sangue inchiostrato che smania

               per giungere al mare del niente. Ma noi continuiamo a farlo come se fossimo quel giapponese
               che non si è reso conto che la guerra è finita, che tutto è terminato. La nostra antica incertezza ci

               rende crepe certosine nella modernità, così inadeguati da pulsare vecchi odori di case diroccate.

               Sappiamo anche che il mondo è sottile e piano e che pochi elefanti vi girano, ottusi.






                20   periodico mensile del gruppo NOIQUI
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