Page 19 - RIVISTA LUGLIO 2024
P. 19
francesco d’angio’
Le muse di Alfonso
(Conversazioni domenicali con l’amico poeta Alfonso Guida)
Nella vertigine dei passi ignari, sento che la domenica chiude l’inerzia del gioco a perdere
dell’esistenza. Un continuo congedarsi è questo affanno precipitoso della costruzione fragile
della gloria umana, a volte enorme e circondata da tutte le muse, altre minima e seminatrice di
macerie. Sono giorni di gran caldo e la lentezza del pensiero non ha da scusarsi per la semplicità
dei contenuti, o della pochezza se volete. Ma quel poco scandisce l’attesa ciclica del punto fermo,
ed incontro Alfonso nella ruga abbastanza profonda della sua voce, la superficie del silenzio
non imbratta la finzione, ed un sincero bene ci introduce di domenica mattina come viandanti
statici ed ossequiosi di una forma sostanziosa.
Vedo spesso il tramonto in uno spergiuro di nebulosa calda, e mi chiedo se Alfonso dall’altra
parte condivide il pozzo della sera dove il sole sprofonda e fa rimbalzare le voci e i corpi della
notte, dove ogni negromante riporta a casa la propria fetta di lavoro. Là in quelle cavità ancestrali
ogni serpe è fatta di pietra.
Ma l’esordio non è così impegnativo, e ci chiediamo come stiamo, poco distanti dal giorno
appena cominciato, poi le nostre letture ed i nostri scritti accompagnano le notizie sul pranzo, i
progetti futuri,
l’accidia generosa di promesse.
Penso che per Alfonso ci vorrebbe una decima musa, quella degli stanziali.
Se lo cercate dovete lasciare una moneta nella ciotola di corteccia di fico, il vostro non sarà un
viaggio nell’aldilà, ma in quel luogo dove siete da sempre senza conoscere nulla. Si va per cardi,
così come scrive in un suo libro, aspettando che Dio inciampi nelle nostre promesse, la luce
persistente rintana le voci notturne fino a quando la veglia ci lascia ingannati.
Il pranzo della domenica ha qualche colore accennato e le mani amorevoli di una devozione
assoluta. La mamma di Alfonso porge al suo altare filiale il voto indissolubile.
Ma prima di ogni preghiera c’è l’alba ed un bar di sedie colorate, la tettoia attende i pochi
rimasti, mentre la macchina cede con costanza il suo frutto marrone, sento come se ogni cosa
fosse parte di un rito, il saluto, l’aroma, il sorso. Il saluto, la tazza riposta, il passo che devia nel
giorno che va definendosi.
Poi ci sentiamo nella voce, come con regolarità ci scriviamo. A sera l’aria è ferma ed impenetrabile,
ed un leggero vento risparmiato alla calura del giorno, accarezza l’uomo che ama la sua malinconia,
dicendogli che sopra gli ultimi colori del giorno, si vive per davvero. Ma non so se siamo nel
momento della riflessione, con le caviglie gonfie, vivi o meno, sentiamo la sola parola che non
ha né un prima né un dopo.
Quelle poche volte che Alfonso si muove mi racconta della sua ritrosia argillosa, della necessità
di farsi carico delle crepe di sabbia di un deserto radicato nell’ascesi, e pare quasi che si muova
in incognito lasciando a casa l’altro di sé. Ho il sospetto che sappia più di Dio che di sé stesso.
Egli viene dalla pietra e si dona ad essa.
Se c’è un luogo che più di ogni altro si addice ad Alfonso, quello è il luogo della pietra sepolcrale,
come un begardo d’altri tempi.
Il luogo, la terra, il sud, il punto cardinale dell’incapacità di muoversi, l’essere endogamico
ponendosi dei limiti per poter trascendere. Sembra un paradosso ma non lo è, come la rinuncia
alla vita per potersi donare ad essa, la scelta di una devozione al silenzio per comunicare con
l’assoluto, inconsapevoli di una catarsi deflagrante.
Il fruscio del vento prima e dopo il temporale, domina la valle dei destinati al macero, di coloro
che scompaiono nella modernità dell’implosione, l’oracolo è nel volto degli anziani che dicono
come il passato sia in divenire. All’inizio del paese c’è sempre il luogo dell’eterno riposo, dove
periodico mensile del gruppo NOIQUI 19