Page 72 - RIVISTA LUGLIO 2024
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fabiana Bia Cusumano





                                       “Solco e parola è tutto ciò che siamo”



                                                        Un incontro con Patrizia Baglione




               Madre che resta è l’ultima silloge di Patrizia Baglione. Già il titolo cattura la mia attenzione e mi

               perfora la pancia. Ma aspetto di leggere i versi divorandoli per tentare di dare parola all’universo
               che vi è dentro. Li leggo. Una intera notte e poi la mattina seguente. Caldo torrido fuori la mia

               villetta al mare ma i versi di Patrizia sono urgenti, così mi arrivano. Come le doglie di un parto

               che per quanto puoi programmarlo può invertire il piano e irrompere irruente nel tuo oggi.
               La natura fa sempre il suo corso. È urgente, imprevedibile, irruente, temeraria, refrattaria agli

               schemi e agli ordini dell’uomo, esattamente come la Poesia. Sì, caldo torrido fuori ma appena

               leggo i versi di Patrizia mi ritrovo con i brividi addosso, sulla pelle e dentro l’anima. Prendo il pc
               e inizio a scrivere. Ad una prima lettura, la silloge può sembrare un dialogo mancato e divelto

               tra un bimbo mai nato e una madre che tale resta pur se non ha messo al mondo questo figlio.

               Il dialogo allora può apparire un monologo di una madre che ripete “ossessivamente” quell’atto
               mancato: quello del generare, dare alla luce un bimbo, il proprio, di cui restano tracce indelebili

               ovunque. Ma in verità il libro non è un dialogo, non è un monologo, non è un piccolo diario

               luttuoso, non è un trattato pur consapevole e ben orchestrato su un aborto. Non è tutto questo.

               Non è neanche una confessione autobiografica, pur nel suo affrontare un tema personale ed
               universale come l’interruzione di una gravidanza. Leggendo le pagine mi imbatto in un verso

               che poi ho scelto come titolo della mia nota di lettura: “solco e parola è tutto ciò che siamo.” Ecco il

               libro è questo. Si consegna al lettore nudo, spoglio di pietismi, di orpelli, di retorica del lutto, di
               introspezione psicologica che pur vi è tra le righe a nutrire il pensiero e l’agito della poetessa. Ma

               il libro non è un manuale per superare il dolore e il lutto di alcuna perdita possa accadere nella

               nostra vita di esseri umani. Il libro è solco profondo, coltello che incide in maniera chirurgica le

               fibre, i muscoli, i nervi. Incide l’utero e scava per arrivare lì dove soltanto la parola poetica può.
               La dimensione da cui porsi non è quella da cui io scrivo e voi leggete. Perché i poeti partoriscono la

               sete come la più bella delle fatiche. Il libro dunque è solco, è parola poetica che ricrea, riplasma, rifonda

               ed è sete come bisogno d’anima. Il corpo trasmuta nei versi di Patrizia e i tratti fisici possiedono
               tratti minerali, naturali, vegetali, floreali. È il cosmo dell’utero che contiene galassie, fiori, edera,

               gerani, piume, rami, uccelli, spighe, pioggia. Insomma l’intera creazione trova corpo nel grembo

               ferito, tranciato, aperto, divelto di Patrizia. In quel corpo nudo che traccia orme rosse e indossa
               il candore del bianco. Ecco i due colori della silloge. Il rosso e il bianco. Il rosso del sangue che

               nutre, che alimenta ma che è traccia anche di violenza, di ferita aperta, di onta imperdonabile.

               Il bianco del candore, dell’assenza, del foglio di carta da scrivere, della vita ancora da venire. Il
               bianco dell’innocenza di un bimbo che resta, di una madre che canta una frattura con la potenza

               di versi che sanno imporsi su tutto. È il bianco anche del marmo, del sale, del latte, della luce di

               una dimensione altra. E sul sale come elemento molto presente nel testo mi sono interrogata. Il

               sale era considerato dagli antichi greci un simbolo d’incarnazione e di perpetuità per il suo potere
               purificatore. Ma il sale è anche elemento che permette la conservazione contro la putrefazione, è

               un elemento che custodisce e impedisce che gli alimenti marciscano. È un simbolo potentissimo

               anche nelle tradizioni popolari.  Ha valore non solo purificatore ma apotropaico. Allontana
               il male, purifica, conserva, custodisce. Ma in molti miti e racconti biblici, come nella Genesi

               accade alla moglie di Lot, si è puniti con la trasformazione in pietra di sale per disobbedienza ad

               un ordine che giunge dall’Alto, per aver contraddetto un imperativo assoluto, un dovere etico,

               insomma per aver sovvertito la legge. Anche Euridice si trasforma in sale allo sguardo incauto
               e sovversivo di Orfeo. Insomma la disobbedienza, la sovversione di una legge o divina o umana

               si paga. L’amore sprecato si paga. Quello mancato resta a chiedere parola per essere narrato,

               vissuto, attraversato, accolto, compreso, forse perdonato. Nel testo di Patrizia, il suo bambino
               è di sale e la tigre impazzita annidata nell’utero deve pagare il fio. Quella tigre che ha azzannato,




                72   periodico mensile del gruppo NOIQUI
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